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1943 - Aldo Fini: i segreti di una prigionia


The story

Oggi esco per la prima volta del campo di concentramento denominato Stammlager Langwasser. Faccio parte del gruppo per la passeggiata; andiamo a Norimberga accompagnati da un sottufficiale tedesco. E' da oltre dieci mesi che il mio spazio visivo non va oltre la pianura che si distende sconsolante quasi all'infinito, oltre le barriere dei fili spinati e dei recinti che racchiudono lo stalag. Le uniche strutture che si ergono in verticale sono le rudimentali torrette in legno che delimitano agli angoli il campo e sulle quali sono appollaiati come falchi i guardiani. In questi dieci mesi le cose sono leggermente cambiate se consideriamo che inizialmente non potevamo uscire nemmeno dalle nostre baracche. Io ed i miei compagni definiamo questa aria liberatoria effetti "ist-zu" (it ist zu). Non è italiano, ne sardo, ne tedesco; forse è un miscuglio di tutto questo e sta ad indicare che "la faccenda (la guerra) è chiusa" finita. Diciamo questo per farci coraggio. Ci hanno detto che l'uscita è programmata alle dieci di questa mattina. E' una giornata primaverile anche se l'aria è fredda e viene dopo una nottata insonne, passata fra paura e sgomento nel piazzale del lager a causa dei bombardamenti americani. Per diverse ore abbiamo sentito come tuoni di un uragano gli scoppi delle bombe, contrassegnati da improvvisi bagliori mentre il cielo sopra Norimberga rosseggiava per gli incendi. Una scena apocalittica da noi vissuta con la paura che da un momento all'altro potessimo essere coinvolti in quel gioco d'impotenza volutamente o per errore. L'ennesima paura, l'ultima di una serie che ha caratterizzato questi lunghi mesi e modificato la nostra anima ed i nostri pesieri: la costante paura del domani, dell'esserci.

ALDO FINI Il primo "cosa ci accadrà" che non trovava risposta lo rilevammo all'indomani della notizia, portata dal vento oltre i Balcani fino ad Atene della destituzione di Mussolini. Sapemmo che il comando del governo e delle forze militari era stato dato al generale Badoglio. Noi eravamo in balia del nulla; il nulla che aveva caratterizzato questa campagna d'Albania e di Grecia, il nulla del nostro armamento, il nulla della nostra preparazione, il nulla di chi ci accompagnava e comandava. In quel momento mi trovavo ad Atene dopo essere stato con il mio reparto molti mesi al presidio del canale di Corinto. In quel momento le notizie ce le passavamo di bocca in bocca e pertanto la precisione e l'attendibilità di queste erano tutte da verificare mentre le notizie, quelle ufficiali, ci venivano fornite dal comando delle truppe germaniche del Peloponneso che in un foglio scritto in un pessimo italiano ci informava che sua Maestà il Re Imperatore ed il Maresciallo Badoglio avevano annunciato solennemente in data 25 luglio 1943 "che la guerra sarebbe continuata al fianco dell'alleato Germanico e che l'Italia avrebbe mantenuto la parola data ma, causa pressioni politiche non avrebbe potuto realizzare questo loro intendimento". A noi venivano date solamente due possibilità: continuare a combattere il comune nemico a fianco e sotto il comando dell'Alleato Germanico o ... cessare la lotta e ritornare in patria. In questo caso dovevamo consegnare senza indugio tutto il materiale militare in perfetto ordine e funzionamento. Le modalità, come per esempio il trasporto ferroviario, ed i tempi del rimpatrio erano completamente a discrezione del Comando Germanico. Nel frattempo la truppa veniva custodita dall'alleato tedesco ed erano, da quel momento, proibite nostre comunicazioni per telefono o per radio; eravamo, in parole povere, già prigionieri. Il tutto era firmato dal Generale Felmy.
Che cosa fare? Il dilemma era chiaro: eravamo in balia dei tedeschi e non potevamo ne difenderci ne fare scelte autonome. Ricordo che tutti volevamo ritornare a casa ma in uguale misura dubitavamo che i tedeschi avrebbero mantenuto la parola data. Avevamo ventiquattro ore di tempo per dare una risposta che noi sottufficiali ed il generale Mattioli passammo segregati in un bunker, chiusi nei nostri pensieri ed ammutoliti dalla comune paura.
Dopo una nottata insonne ed interminabile, alle prime luci dell’alba, entrò un sottufficiale tedesco avvertendoci che entro poche ore sarebbe arrivato il capitano delle SS ad ascoltare le nostre risposte. Quelle poche ore, indeterminate, aumentarono il mio stato d’ansia e mi procurarono un malessere psico-fisico immaginabile; ricordo che vomitai tutto quello che mi si era fermato, come il tempo, nello stomaco; quell’attesa coinvolse tutta la mia persona. Poi il sergente ci chiamò; il capitano ci aspettava fuori dal bunker. Appena usciti e schierati d’avanti a lui ci chiese cosa avevamo deciso. Io che conoscevo un pò di tedesco misi giù due parole concordate con i compagni; dissi che non sapevamo cosa dovevamo scegliere dato che non era chiaro cosa ci sarebbe accaduto se non avessimo aderito alla proposta di andare con loro. “Diese ist die lage: mit uns oder alle Gefangere” risponde. “Gut” dissi “ alle Gefangere” (Bene, tutti prigionieri). Il capitano girò tacchi e se ne andò indispettito. Non sempre ad una risposta decisa corrisponde uno stato d’animo analogo; quello fu un caso del genere. Cosa sarebbe accaduto da quel momento in poi a me ed ai miei compagni dopo quella scelta, quella risposta?
A metà settembre alcuni ufficiali del Santa Maura ci portarono la terribile notizia che dette fine alle minime speranze di un improbabile rimpatri: partivamo dalla stazione ferroviaria di Atene per, come prima destinazione, Meppen; partivamo per la prigionia.

Eravamo nel mezzo del giorno quando il treno merci nel quale fummo sistemati prese lentamente a muoversi per un viaggio versi un’incognita destinazione che mise a dura prova le nostre residue resistenze . Ci accorgemmo subito che non era affatto comodo viaggiare su un carro adibito al trasporto di cavalli; il portellone aperto, bloccato da sbarre trasversali, ci dava aria e ci rendeva più sopportabile quella puzza anche se durante la notte nelle giornate fredde e in prossimità delle zone montuose (dopo il ponte d Brazos) ci sentivamo congelare. L’unico movimento era originato dai sobbalzamenti del carro e dalle brusche frenate. Avevamo difficoltà di spazio anche per mangiare ma la scatoletta e mezzo di carne ed i tre pacchetti di gallette a persona per tre giorni ebbero poca durata.
Ci fermammo a Kralievo in Serbia per quindici ore ma nessuno ebbe la possibilità di scendere dal carro. Ci dissero che sarebbe stato pericoloso. Poi capimmo: fummo oggetto di un lancio di mele da parte dei Serbi. Segno del loro disprezzo nei nostri confronti ed a scherno della nostra fame. Quando riprendemmo il viaggio incominciò a piovere e molti soldati che si trovavano nei carri scoperti urlavano e battevano contro le portiere per farsi aprire; volevano dei teli ma nessuno li aveva. Eravamo affamati ed intirizziti dal freddo; percepivamo che stavamo andando verso nord. Ricordo che mi prese un forte dolore al basso ventre tanto da farmi piegare su me stesso: avevo bisogno di orinare ma il secchio nell’angolo del carro era traboccante; anzi, gran parte del contenuto aveva passato con i sobbalzi il bordo e l’orina si era dispersa per il carro. Non riuscendo più a trattenerla la feci scendere lungo le gambe dandomi una sensazione di caldo. Le mie condizioni erano pessime; avevo le mani gelate ed i muscoli bloccati. Estenuato dallo sforzo e dalla tensione; la testa mi girava ed a mala pena riuscivo a pensare a stare sveglio. Tutto si complicò quando arrivammo e ci dissero di scendere; non ricordo ne dove ne dopo quanto tempo, senz’altro molto anche se trascorso nella totale semicoscienza. Non riuscivo a camminare ed a malapena a stare in piedi. Accanto a me il capitano Logi mi incoraggiò: “Se non ce la fai non aver paura; fai come fanno tanti altri. Mettiti dietro, anche a me, e con gli altri ai lati verrai sorretto.” Appena passati i reticolati ci dettero una coperta, una fetta di salame ed un tocco di pane.
Quella fu la prima destinazione ma non la definitiva. Era un campo di concentramento polacco; da lì transitavano anche i deportati ebrei e fu una sistemazione logistica che durò poco meno di un mese prima di riprendere il viaggio in treno che durò un’altra decina di giorni. In quelle baracche vi erano ventiquattro posti letto a castello privi di traversine a sostegno del materasso; le ritirammo al magazzino insieme a un materasso maleodorante e fatto di trucioli di un materiale non ben definito, forse cartone. Al centro della baracca vi era una stufetta; ma faceva un enorme fumo e le legna da ardere erano poche e di dimensioni enormemente più grandi. Una stalla era assai più confortevole di quel luogo anche se il peggio era rappresentato dai servizi. Da un lato vi erano i lavatoi con pompe a mano per cavar l’acqua di colore marrone e logicamente non potabile. Dall’altro lato vi erano i gabinetti, ossia un corridoio lungo e stretto in mezzo al quale vi era una lunga tavola il legno tenuta a metà da dei tramezzi con appena sotto una ventina di buchi dove si accucciavano ed appoggiavano le persone, una accanto all’altra, quasi a contatto di gomito. La puzza era indescrivibile. Ricordo che tutto questo mi fece sentire un animale. Di quel mese e di quella baracca ho un altro brutto e drammatico ricordo. Rammento benissimo che era il cinque maggio perché al mattino, al risveglio, qualche buontempone si mise a decantare la famosa poesia del Manzoni: “Ei fu..”. Ricordi scolastici. Ma il siparietto goliardico ebbe breve durata; Diogene ed Arnoldo Papini dal fondo della baracca richiamarono incessantemente l’ attenzione di tutti ad alta voce. Il Quinteri, da noi soprannominato “Pancio”non si svegliava ed il materasso della sua brandina era invaso da un lago di sangue. Il “Pancio” si era tagliato i polsi e la gola con la lama rasoio della barba. Tante volte ci ripetevamo di non farsi prendere dalla paura e dalla disperazione. Non sempre alle nostre volontà seguivano azioni e comportamenti analoghi; e dire che solo due giorni prima Pancio era pieno di speranza.

ADELE DANIEL Oggi allo Stammlager stiamo mentalmente meglio e questo per tanti motivi, non ultimo quello di abituarsi, dopo un anno di prigionia anche a questo modo di vita. Tuttavia le mie condizioni fisiche non sono certo le migliori; da oltre tre settimane il mio orecchio sinistro mi da dolore e “spurga” puss. Il giovane dottore del campo, il tenente Hansel mi ha curato con la sola cosa a disposizione: l’acqua ossigenata. Le medicazioni giornaliere me le ha invece fatte con pazienza e dedizione colei che quotidianamente porta la nostra corrispondenza al campo: Adele la postina. La situazione è leggermente migliorata ma non molto. Anche questa mattina, prima di partire per l’attesa passeggiata, ho avuto le quotidiane cure al termine delle quali la giovane postina mi ha detto in un soddisfacente italiano: “Acqua e passione sembrano dare buoni frutti. Aldo …sono contenta! L’orecchio sembra guarire! Cosa ha detto il dottore ?” Ma quelle considerazioni mi danno una gioia limitata perché la cosa che mi preoccupa maggiormente è il fatto che dall’orecchio non sento più nulla; nessuna voce, nessun minimo rumore. Comunque sento il mio nome quando il sottufficiale tedesco ci chiama per la passeggiata: “Fin Aldo”; mai sentito pronunciare il mio nome e cognome in modo tanto duro. L’importante è comunque uscire.
Col graduato tedesco procediamo attraverso la campagna verso la periferia di Norimberga; arrivati ad un sobborgo, alle dieci e mezzo saliamo in un bus dove ognuno acquista il biglietto con i propri soldi come un cittadino qualsiasi. Alle fermate scendono e salgono alcune persone ma nessuno ci rivolge la parola. Mi sento a disagio nel trovarmi a contatto con gente libera dopo dieci mesi di isolamento nel lagher, persone che molto probabilmente sanno chi siamo e capiscono da dove veniamo e non ti dicono nulla.
Passiamo vicino al grande stadio dove Hitler, subito dopo il suo avvento al potere, radunò il partito nazionalsocialista. Guardandomi attorno, dai finestrini del bus, noto i segni evidenti dei bombardamenti della notte; forse ci hanno portati lì per farci vedere cosa sono capaci di fare gli americani. Poi il bus arriva ad una piazza: l’accompagnatore ci fa scendere e ci dice che possiamo passeggiare da soli ma che dobbiamo ritrovarci in quello stesso luogo fra due ore. Vediamo una bellissima chiesa; ci viene detto che è la cattedrale di San Lorenzo. Poco distante, vicino a due palazzi semi-danneggiati, vi è un vicolo all’inizio del quale è aperta una birreria. Entriamo. Prendiamo una birra soltanto a testa e riusciamo. Chi prima, chi dopo; ma non tutti perché alcuni decidono di restare.
Norimberga nei disegni di ALDO Io esco con Arnoldo ma appena passata la soglia della birreria mi sento chiamare.”Aldo… ti andrebbe un caffè espresso, fatto all’italiana?!” era signorina Daniel, la postina. Sono quasi quattro anni che non ho il piacere di gustarmi un caffè . Un caffè/caffè poi ancora di più; quasi persi i connotati del gusto.
“Io… volentieri! Non so se Arnoldo…” mi volto ma l’amico (Arnoldo) si è dileguato improvvisamente; sparito come neve al sole.
“Arnoldo ci ha salutato… non te ne sei accorto?” Sono in piena confusione mentale e fisica. Non so né dove guardare né cosa fare; poi la postina mi fa strada. Entriamo dentro un palazzo adiacente a quelli semi-distrutti visti poco prima. Saliamo due rampe di scale. Provo una strana sensazione; ho perso anche i connotati di come è una civile abitazione: gli scalini di pietra, il passamano con ringhiera, le pareti adornate di stucchi, i portoni con i campanelli e sotto i nomi delle famiglie. Per un attimo il pensiero vola a casa mia. Il cervello umano alcune volte fa strani scherzi. Il pensiero, si sa, è silenzioso e gli altri non si accorgono dove va la tua mente. Sono risvegliato dall’odore del caffè che brontola, nella macchinetta tutta italiana, per uscire dopo una ben dosata pressione. Che meraviglia!! Il sapore mi riporta in Italia.
“Te gusta?! Te gusta!!”
“Orca ! Se mi gusta!”
La giovane sorride mentre io rimango, con la tazzina appena vuota, bloccato in uno stato gustativo che mi porta a chiudere gli occhi come la bocca per riassaporarmi meglio le labbra ed il palato. Poi una mano afferra dolcemente ma con decisione la mia “E’ la tazzina del buon servito . Non voglio che ti cada di mano !” In verità la stavo proprio lasciando andare preso dall’ipnosi gustativa. Ma la mano di Daniel mi porta in un altro limbo dimenticato. Non mi sento più prigioniero; m sento un uomo libero e soprattutto un uomo. Così fermo la mano di lei che sta posando la tazzina sul tavolo; la guardo negli occhi in modo intenso e duraturo e dopo aver acquisito la consapevolezza che dietro al suo sguardo vi è il desiderio e la passione, la bacio in modo prolungato e sconvolgente. Sconvolgente perché dietro a quel primo bacio vi era un silenzio dei sensi erotici quasi preistorico, indefinito nel tempo; altre sono state in questi anni le priorità. Per la verità solo in quest’ultimi giorni ho brevemente fantasticato su quella postina che mi medicava l’orecchio, ma troppe erano le cose da rimuovere prima di approfondire un pensiero del genere. Ora si sono rimosse tutte insieme , in un attimo, ed è amore, sesso, sesso ed amore. Con Adele ci siamo visti ed incontrati spesse volte in quest’ultimi mesi di prigionia.


Aldo torna a casa nel giugno del 1944 pochi giorni dopo la morte di suo padre. Si sposerà Maria pochi anni dopo ed avrà alla fine degli anni ’40 ed inizio ’50, tre figli. La sua sarà una vita onesta e piacevole. Morirà pochi anni prima dell’inizio del nuovo millennio. Il giorno del suo funerale, fra parenti ed amici, al cimitero del Laterino, vi era una donna , longilinea, dai capelli lisci e castani, con gli occhi chiarissimi e la carnagione olivastra. Assistette in silenzio alla sepoltura con le braccia conserte e lo sguardo sempre fisso verso la bara. Venne avvicinata da un parente che la salutò; dalla sua risposta capì immediatamente che non era italiana: nelle altre due parole di scambio disse di chiamarsi Holga Daniel, passati di lì per caso, e nata a Norimberga il 12 gennaio 1945.


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